Il patto di non concorrenza con il dirigente.
In Italia, negli ultimi anni, si sta consolidando sempre di più la prassi contrattuale avente ad oggetto la sottoscrizione di patti di non concorrenza con manager ed amministratori delegati delle grandi multinazionali[1]. Questa tipologia di accordi è disciplinata dal codice civile all’art. 2125[2], il quale prevede determinati requisiti affinché un accordo tra datore di lavoro e dipendente possa essere qualificato in tal senso.
- Forma
Anzitutto, la sottoscrizione di un patto di non concorrenza serve ad evitare che il dirigente, alla cessazione del rapporto di lavoro, possa svolgere, in futuro, la medesima attività lavorativa per una società direttamente in concorrenza con il precedente datore di lavoro. Il patto di non concorrenza costituisce, pertanto, un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive.
Derogando al principio della libertà di forma generalmente vigente in materia lavoristica, tale patto deve avere obbligatoriamente la forma scritta a pena di nullità e può essere stipulato sia al momento dell’assunzione, che durante lo svolgimento del rapporto lavorativo, ma anche alla cessazione del rapporto, costituendo un accordo a sé stante rispetto all’accordo che regola il rapporto contrattuale corrente tra le parti.
Il legislatore, in tal modo, vuole richiamare l’attenzione del dirigente sull’importanza dell’oggetto del contratto, rendendolo così più consapevole della rinuncia alla libertà di scelta della sue future eventuali occupazioni lavorative.
- Corrispettivo
Proprio per il fatto che il lavoratore limita le sue possibilità di potersi ricollocare sul mercato del lavoro e. quindi. di guadagnare un reddito idoneo alle proprie esigenze di vita, l’art. 2125 c.c. prevede l’obbligo del corrispettivo gravante sul datore di lavoro. In assenza di tale previsione il patto dovrà considerarsi nullo. Altresì, la nullità si produrrà quando il compenso pattuito è meramente simbolico, iniquo e sproporzionato in rapporto al sacrificio richiesto all’ex dirigente. Il corrispettivo potrà essere convenuto tra le parti sia in misura fissa che in percentuale e potrà essere elargito in costanza del rapporto di lavoro insieme alla retribuzione, a rate periodiche durante la vigenza del patto o in un’unica soluzione nel momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Per quanto riguarda l’individuazione della misura del compenso ed, in particolare, la congruità dello stesso, la giurisprudenza più recente riconosce un’ampia autonomia negoziale alle parti evitando di predeterminare sia i limiti minimi sia i criteri di liquidazione, ritenendo quali elementi fondamentali per un giudizio di congruità la misura della retribuzione, l’estensione territoriale ed oggettiva del divieto ed il know-how proprio del dirigente.
Il corrispettivo erogato a titolo di patto di non concorrenza in costanza di rapporto di lavoro, infine, si ritiene debba essere assoggettato alla contribuzione previdenziale, in quanto le somme rientrano nel concetto di retribuzione imponibile, mentre restano escluse qualora siano erogate alla cessazione del rapporto medesimo.
- Oggetto
L’attività concorrenziale vietata dal patto, oltre a quella svolta in costanza di rapporto di lavoro, può riguardare anche mansioni che non costituivano oggetto della precedente prestazione lavorativa del dirigente; può, quindi, riguardare ogni tipo di attività professionale o subordinata. La giurisprudenza ritiene che l’adeguatezza del patto sul punto deve essere verificata considerando il grado di specializzazione del dirigente e le mansioni tipiche di quel settore.
Il patto può poi contenere anche un divieto di storno dei dipendenti e, quindi, il dirigente non potrà fare scouting all’interno dell’azienda, il che costituisce un’ulteriore garanzia per il datore di lavoro.
- Durata e luogo
Per quanto riguarda i dirigenti, l’art. 2125 c.c. prevede una durata massima del patto di non concorrenza pari a cinque anni. Il patto che prevede una durata superiore non sarà ritenuto nullo, ma il vincolo si ridurrà automaticamente entro i limiti massimi previsti per legge.
Essendo espressamente previsto dalla norma un limite temporale, datore di lavoro e dirigente non potranno, quindi, pattuire un termine superiore, ma qualora ne concordino uno inferiore, è data loro la possibilità di stipulare un secondo patto che però non superi la durata massima complessiva dei cinque anni.
La norma, infine, inibisce la prestazione potenzialmente concorrenziale del dirigente anche nell’ambito spaziale. Si ritiene, infatti, che il patto debba contenere precisi limiti territoriali che possono essere determinati sia a livello nazionale ma anche, vista la crescente globalizzazione dell’economia moderna, a livello comunitario, pur nel rispetto del diritto dell’ex dirigente di potersi ricollocare sul mercato del lavoro.
In ogni caso, l’ambito territoriale del patto di non concorrenza è strettamente connesso all’oggetto dello stesso.
- Violazione del patto
Al fine di dissuadere il dirigente dall’iniziare una nuova attività lavorativa in concorrenza con quella precedente, nel patto stesso può essere espressamente prevista una clausola penale con funzione risarcitoria e/o sanzionatoria, determinata in un importo forfettario ma, comunque, proporzionata alla natura del vincolo che si assume il dirigente.
Se comunque il patto di non concorrenza viene violato, sono messi a disposizione dell’ex datore di lavoro alcuni rimedi; anzitutto, essendo la violazione del patto un inadempimento contrattuale, è riconosciuta all’ex datore di lavoro la possibilità di richiederne la risoluzione ed eventualmente il risarcimento dei danni subiti (anche se è stato evidenziato che nella maggior parte dei casi il danno derivante dalla violazione del patto è ineliminabile).
Il datore di lavoro potrà, altresì, avvalersi dell’azione inibitoria al fine di far cessare lo svolgimento di quelle mansioni oggetto del patto di non concorrenza o dell’intero nuovo rapporto di lavoro[3] nonché domandare al Giudice del Lavoro[4] la ripetizione delle somme versate in esecuzione del patto a titolo di corrispettivo.
Infine, ove il provvedimento del giudice vada a ledere diritti dei terzi, la causa sarà da ricercare nel comportamento inadempiente del lavoratore, il quale, quindi, potrà vedersi obbligato a risarcire anche gli eventuali danni da questi subiti.
Avv. Marco Pola – marcopola@npassociati.com / 02.72022469
[1] La Ferrari ha concluso con Luca Cordero di Montezemolo un patto di non concorrenza da 13 milioni di euro, mentre l’accordo per l’uscita di Andrea Guerra da Luxottica valeva 800mila euro e 2 milioni e 200mila euro era il valore del patto tra ENI e Paolo Scaroni.
[2] L’art. 2125 c.c. recita “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.
[3] Per rendere esecutivo l’ordine di cessazione del rapporto di lavoro subordinato in essere, la giurisprudenza di merito ha previsto anche la possibilità di adottare misure atipiche di coazione indiretta, quali ad esempio porre a carico del lavoratore una somma da corrispondere per ogni mese di inadempimento del suddetto ordine (Tribunale di Bologna, ord. 29 gennaio 2002).
[4] La competenza del giudice del lavoro si estende a tutte le pretese che hanno fondamento nel rapporto di lavoro, anche se relative a fatti verificatisi dopo la sua cessazione, quali i comportamenti del lavoratore che integrino la violazione di un patto di non concorrenza (Cass. Civile, Sentenza n. 19001 del 10 luglio 2008).